Aspettative e bisogni della generazione invisibile

Alcuni anni fa nell’ambito dell’impegno politico giovanile, ci rendemmo conto che la nostra generazione ovvero quelli nati dopo il 1970, era da considerarsi una vera e propria generazione invisibile. La generazione invisibile infatti, comprende tutti coloro i quali, me compreso, che non sono garantiti dai sistemi di welfare, dai precarizzati a vita, dai privati di qualsivoglia solidità abitativa, dai marginalizzati dal sistema previdenziale.

Parto da una considerazione di non poca rilevanza: è la generazione della transizione politica e di tutto ciò che n’è stato causa e conseguenza.

  • E’ la generazione che nel 1989 ha guardato il muro di Berlino cadere, che non si è fatta travolgere dalle macerie ma, anzi, si è sforzata di capire potenzialità e rischi di una globalizzazione, che, cominciando ad affacciarsi, sfumava sempre più i confini nazionali.
  • E’ la generazione che ha vissuto nel biennio ’92 – ’92 la stagione di Tangentopoli, ha assistito alla scomparsa o alla trasformazione dei grandi partiti tradizionali, alla fine di un sistema politico.
  • E’ la generazione che ha fatto i conti con la necessità di dover vivere in una società multietnica, in un Paese che per la prima volta è stato oggetto di un fenomeno di massa delle dimensioni eccezionali come quello dell’immigrazione.
  • E’ la generazione che ha vissuto per prima sulla propria pelle pregi e difetti della flessibilità trasformata in precarietà, rendendo impossibile a ragazze e ragazzi di immaginare una propria famiglia, costretti per questo a restare a lungo nel più sicuro e protettivo nucleo originario; la prima che ha minori certezze e prospettive future di quelle avute dai propri genitori.

 

I nati dopo il 1970 oggi sono dunque una generazione che diventa visibile solo sotto il marchio della flessibilità, con in tasca contratti di lavoro (quando li hanno) di breve durata, volatili, rinnovabili (forse) secondo la congiuntura.

Abbiamo usato sempre l’immagine di una grande rapina compiuta dai padri ai danni dei figli. La mezza Italia nutrita dalle politiche irresponsabili di innalzamento del debito ha scaricato tutti i costi sulle generazioni successive. Ora noi nati dopo il 1970 paghiamo il conto.

Purtroppo, un’altra legislatura ancora una volta è andata sprecata a causa di una maggioranza che non è riuscita a fare quelle riforme necessarie ad attuare processi di crescita per farci uscire da una crisi che ci vede maggiormente esposti. Il Governo Monti attraverso politiche di rigore assoluto ha sì evitato all’Italia di finire come la Grecia, ma ha anche prodotto una recessione dalla quale non sarà facile venirne fuori.

 

Io però sono fermamente convinto che vale la pena cominciare a scommettere sui nuovi adulti.

Una parte di questa generazione, non senza difficoltà, si è affermata nel lavoro, nelle professioni, nella ricerca, nelle associazioni, nel sindacato e nella politica. Una parte, e non sempre la meno capace, fa i conti ancora con la precarietà e con gli ostacoli di una società poco proiettata nel futuro.

Bisogna rivolgersi a queste nuove identità per affrontare uno dei problemi strutturali dell’oggi: la debolezza delle classi dirigenti.

Questa debolezza è, infatti, la conseguenza della crisi delle istituzioni e dei soggetti che tradizionalmente hanno selezionato la classe dirigente: l’università, la grande impresa, i partiti e i sindacati.

 

E’ necessario guardare al sistema paese con l’occhio della generazione dei nati dopo il 1970; con gli occhi dunque non dei giovani ma dei nuovi adulti, di coloro che dovrebbero avere già una stabile vita di coppia, un lavoro definito e un accesso alle professioni, un bagaglio culturale e tecnico adeguato, un percorso segnato da valutazioni di merito e non da relazioni con questo o con quello, un accesso al credito non impossibile, un accesso alla casa non impossibile, un po’ meno debito pubblico sulle spalle, qualche prima responsabilità nei luoghi dell’impresa, della ricerca, dell’amministrazione, della politica e così via.

Tutto questo non c’è, o non c’è abbastanza e così il sistema paese si gioca il futuro. Per evitare questo, personalmente ritengo che si debbano migliorare le condizioni dei “nuovi” lavoratori.

Francesco Ingoglia

 

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